“Pronuncia sempre con riverenza questo nome – maestro – che dopo quello di padre, è il più nobile, il più dolce nome che possa dare un uomo a un altro uomo.”.
(Cuore – Edmondo De Amicis)
Quella di maestro è una funzione, non un titolo. Per questo penso che quando espresso nel senso più alto, riferito ai propri maestri, vada scritto con la m minuscola. Elevarlo a titolo, appellare altri come Maestri, gli fornisce forza e rispetto manifesto, ma è altro, sottrae quell’intimità necessaria in una relazione personale.
Il docente di scuola è un dipendente pubblico che deve fare il suo dovere, l’insegnante d’arte o di sport un dipendente privato a cui si paga una prestazione in prospettiva di una aspettativa. Se non ci soddisfano li cambiamo, spesso su spinta di ansiosi genitori, alla ricerca del meglio per pargoli bambinizzati a tempo indeterminato o peggio, per ambizioni o illusioni o peggio gelosie anch’esse spesso genitoriali. Per non parlare del mercenariato che invade lo sport!
La portata dell’educazione famigliare sul fraintendimento del ruolo è comunque evidente. Oramai da generazioni abbiamo perso questo modello sociale, raramente sentiamo qualcuno parlare della portata dell’opera del proprio maestro nella propria vita. Peccato!
Perché non è solo cosa nobile, come dice De Amicis, ma proprio bella, gratificante, quella di avere un riferimento nella propria vita, riconoscere quella persona che ci ha fatto crollare resistenze, che ci ha trasformati, che ci ha aperti al mondo.
Quella figura che spesso si carica di fardelli che vanno oltre i propri compiti istituzionali, quei fardelli che non sono affatto impliciti o scontati e che non hanno un corrispettivo economico misurabile. Quel di più che spesso neanche si vede o che, purtroppo, se si vede si finge spesso di ignorare.
Poi a volte con meraviglia, capita di vedere la gratitudine per l’opera, si sentono o si leggono parole sincere di affetto e intimità tali che non lasciano dubbi. Non tutto è perduto!